Da tempo utilizzi Google. Fai ricerche, utilizzi la posta elettronica con Gmail, carichi i tuoi file su Drive. Quanto paghi al mese per tutti questi servizi? Nulla. Se chiederai ai tuoi amici quanto pagano per gli stessi servizi, ti risponderanno la stessa cosa. Nessuno ha mai speso un centesimo per cercare qualcosa sul motore di ricerca. Eppure, il fatturato di Google del 2020 ammonta a circa 182 miliardi di dollari. Com’è possibile un guadagno così elevato, se i servizi che ci vengono offerti sono gratuiti?
In realtà, quando usiamo un servizio gratuito, è probabile che stiamo fornendo qualcosa di molto più redditizio.
Le nostre ricerche, i contenuti che pubblichiamo, le azioni che compiamo, sono ricche di informazioni.
Esse possono essere dati personali sulle nostre preferenze, pattern di comportamento, intuizioni sulle nostre scelte future. Aggregando queste informazioni insieme, è possibile ottenere un profilo personale di noi.
Immagina le ricerche che fai e gli acquisti online. Collegando le informazioni raccolte da queste azioni, si può facilmente comprendere cosa ti piace, a cosa sei interessato, cosa ti spaventa.
Ma cosa se ne fanno di queste informazioni?
Google ha sempre raccolto diversi dati dalle ricerche che gli utenti effettuavano, registrando le query di ricerca, i risultati sui quali si cliccava etc.
Esse, in passato, servivano unicamente a migliorare il motore di ricerca e renderlo più efficiente. Ma involontariamente, Google si ritrovò ricco di informazioni.
Il sistema di guadagno dell’azienda era basato su pubblicità contestuali e integrazioni del motore di ricerca in siti web di terze parti. Quando la compagnia iniziò a crescere, i suoi fondatori compresero che per non far fuggire gli investitori (che stavano ponendo molta pressione sulla società) era necessario un sistema di capitalizzazione efficiente e sostenibile nel tempo.
Fu così che tutte quelle informazioni raccolte vennero “riscoperte” come fonte di reddito. Infatti, essi avevano a disposizione un mucchio di dati sul comportamento degli utenti, e grazie alla perspicacia di alcuni ingegneri avevano la possibilità di estendere e migliorare la raccolta.
In questo modo si poteva offrire pubblicità basata su target molto specifici, perché creati ad personam. Tutti i dati che lasci in giro, servono a creare un profilo personale che può essere utilizzato per proporti pubblicità in linea con i tuoi interessi.
Hai mai avuto la sensazione che le ricerche che effettui ti seguano ovunque sul web? Non è una coincidenza.
Questo sistema di guadagno è definito “capitalismo della sorveglianza”. Un capitalismo moderno, dove il surplus è di dati e al suo interno noi non siamo più i consumatori ma la miniera da cui estrarre la materia prima da lavorare e vendere.
Google è il pioniere e il leader di questo sistema, ma ormai è fra le tante a sfruttarlo. Facebook, Amazon, Microsoft e tante altre aziende che non conosciamo, collegate o no a queste più grandi, raccolgono dati a fini pubblicitari rivendendoli a terze parti ancora più misteriose.
Ogni volta che utilizzi un sito web o un’applicazione gratuitamente, dovresti chiederti se non stiano raccogliendo e vendendo le tue informazioni personali.
A quali pericoli siamo esposti?
I pericoli della perdita di privacy sono diversi e non dovrebbero essere sottovalutati.
Il primo inganno nasce dai termini di servizio. Infatti, quasi nessuno li legge, ma tutti li accettano ugualmente.
Shoshana Zuboff, autrice de “Il capitalismo della sorveglianza” (Luiss University Press 2019), paragona questi contratti al Requerimiento, il documento che veniva letto dai conquistadores spagnoli agli indigeni americani prima di attaccarli, scritto in una lingua che non conoscevano, citando un Dio, un Re e un sistema legislativo totalmente estranei alla loro cultura. Una volta che gli europei evadevano il loro dovere di “informare” e rendere le cose aderenti agli editti reali, attaccavano.
È proprio così che ai nostri giorni inizia la strada del tracciamento. Accettiamo termini, licenze e condizioni che non riusciamo a comprendere a pieno, cedendo subito i nostri dati personali senza aver letto chi li acquisirà, come li elaborerà e cosa ne farà. Ma soprattutto quali e quanti dati verranno raccolti.
Questo problema è notevole, ma anche tacitamente apprezzato dagli stessi autori dei termini di servizio. Essi sono scritti con un linguaggio giuridico molto complesso e non alla portata di tutti, sono molto lunghi e diventa un’occupazione a tempo pieno volerli leggere e comprendere nella loro interezza. A ogni paragrafo vengono introdotte compagnie di terze parti che aggiungono ulteriori documenti a quello che stiamo leggendo, trasformandolo in un circolo infinito da cui non si può uscire. È molto più facile accettare direttamente, con un’innata ingenuità che ci porta a fidarci della compagnia a cui ci stiamo rivolgendo.
Ma quindi, cosa rischiamo concretamente?
- I tuoi dati possono essere usati per condizionarti: i motori di ricerca, i social network, le piattaforme di streaming ti intrappolano nella cosiddetta “bolla filtrante”: i contenuti che ti vengono mostrati sono filtrati sulla base delle informazioni ottenute su di te. Per esempio, se due persone, una con posizioni più progressiste e una con posizioni più conservatrici effettuano una ricerca Google con la query “immigrazione in Italia”, ci si aspetterebbe che i risultati ottenuti siano identici. Invece la bolla filtrante mostrerà loro contenuti differenti. La prima vedrebbe un maggior numero di articoli a favore del supporto all’arrivo di nuovi migranti in Italia, la seconda un maggior numero di articoli che sostengono l’esatto contrario. Seguendo questa tendenza, anche i giornali che devono apparire sui social o nelle ricerche per sopravvivere, adeguano il contenuto in modo da non essere esclusi dalle bolle. Ciò condiziona l’opinione, dato che una parte dell’informazione sparisce dall’attenzione, polarizzando il pensiero e radicalizzando le idee.
Oppure, potresti essere spinto ad acquistare un prodotto anziché un altro, semplicemente perché ti viene mostrato più frequentemente, mentre l’altro viene nascosto.
Nel 2018, lo scandalo Cambridge Analytica ha mostrato anche come l’uso dei dati possa condizionare i processi democratici fondamentali come il voto. Pare infatti che l’elezione di Trump alla Casa Bianca e il voto su Brexit siano stati manipolati dall’azienda.
È giusto che una compagnia decida per te cosa mostrarti? - I tuoi dati potrebbero essere usati per violare i tuoi diritti fondamentali: le rivelazioni di Edward Snowden del 2013 hanno messo in luce questo pericolo. L’NSA, l’agenzia di sicurezza nazionale statunitense, effettuava spionaggio di massa sui cittadini americani e non. Molto spesso, i dati non erano raccolti direttamente dall’agenzia, ma erano trasmessi da colossi del web fra cui Google, Facebook, Apple, Microsoft, Yahoo! e altre. Ciò non era una semplice comodità, ma un’asimmetria informativa. In pratica Big Tech ha più strumenti dell’intelligence per fornire dati precisi e di qualità.
- Potresti essere vittima di violazioni di dati da parte di attacchi cracker (non un salatino, ma un hacker con intenzioni malevoli. V. link) che potrebbero esporre i tuoi dati personali pubblicamente o metterli in vendita illegalmente. Nessuno è esente da questo problema, anche chi pensa di non essere nel mirino di qualcuno. Spesso gli acquirenti cercano solo identità casuali per compiere reati o account per usufruire gratuitamente di servizi.
La soluzione più efficace è smettere di fornire troppi dati alle compagnie. - Esponendo le tue informazioni personali, potresti avere difficoltà ad accedere al credito: si sta diffondendo la pratica da parte di banche e agenzie assicurative di acquisire informazioni personali per determinare l’erogazione di mutui, prestiti e polizze assicurative. Basta una ricerca sbagliata per trovarsi impossibilitato a chiedere un finanziamento, oppure potresti addirittura essere considerato un terrorista a tua insaputa.
Ma io non ho nulla da nascondere!
Se anche tu hai pensato questo, potresti non aver considerato delle cose:
Anche se non hai nulla da nascondere, i tuoi account sono protetti da password. Probabilmente hai anche un blocco schermo sul tuo smartphone. Non è questione di segretezza, ma di riservatezza.
Le persone che entrano in contatto con te potrebbero avere qualcosa da nascondere. Un tuo amico potrebbe rivelarti qualcosa di importante e non vorrebbe che nessun altro lo sapesse. Oppure i dati della compagnia per cui lavori potrebbero essere presenti nel tuo smartphone ed è tuo dovere proteggerli. La riservatezza deve essere una priorità collettiva, non individuale.
La privacy è un diritto umano riconosciuto, ma non sempre ci è stato garantito, e tuttora non è garantito in qualsiasi posto del mondo. Iniziare a fare delle concessioni ne allenta la legittimità. Il passato può sempre ritornare.
Inoltre, le aziende che raccolgono questo numero esorbitante di dati personali li utilizzano per rivenderli e creare profitto, senza che ti sia offerta una percentuale. Immagina il tempo che passi su Instagram interagendo con le tue pagine preferite e inviando contenuti ai tuoi amici, mettendo like e vedendo storie. Crei una moltitudine di dati e pattern di comportamento, che verranno raccolti da Facebook (la casa madre di Instagram) per migliorare il servizio e vendere pubblicità personalizzata. Praticamente stai lavorando gratis. E probabilmente verrai anche convinto ad acquistare un prodotto di cui non hai bisogno o che non è davvero adatto a te.
Ma Google e Facebook affermano che non vendono i miei dati!
Ti ricordi del Requerimiento?
Nell’ultimo periodo, i due colossi del web sono al centro dell’attenzione mediatica e governativa in molti paesi per i vari scandali sulla privacy in cui sono state coinvolte.
In loro difesa, hanno affermato di non vendere i dati personali degli utenti. Questo però è fuorviante. Le due aziende si sono appellate a dei cavilli legislativi: Google e Facebook, di fatto, non vendono direttamente i tuoi dati personali agli inserzionisti, ma il prodotto della loro analisi. Per questo possono affermare di non vendere i dati, ma il risultato è esattamente lo stesso. Sia che forniscano direttamente i tuoi dati personali che un profilo nato da un’elaborazione di essi.
In conclusione…
Non sappiamo cosa ci aspetta in futuro, ma è necessario diventare consapevoli su come il mondo sta procedendo.
La raccolta di dati indiscriminata da parte di compagnie che esercitano questo monopolio sta esacerbando le disuguaglianze, creando tensioni sociali e rovinando la concorrenza sul mercato. Questi problemi potranno diventare sempre più estesi. Cosa sarebbe la giustizia se a occuparsene non fossero giudici, magistrati e avvocati ma intelligenze artificiali alimentate dai nostri dati? Questa è una delle tante annose questioni che possiamo porci per parlare di equità in futuro.
Nel frattempo nell’Unione Europea si sta discutendo del DMA, una riforma che potrebbe mettere fine a questa pratica, o perlomeno potrebbe darci più potere di decidere come i nostri dati possono essere utilizzati. Non sappiamo il testo finale come sarà e quali effetti avrà sul mercato digitale, ma possiamo già notare come le grandi compagnie stiano facendo pressione per disertare il regolamento. Noi cittadini, nel frattempo, non possiamo fare altro che mantenerci informati e comprendere la portata del fenomeno per non essere sopraffatti dal nostro stesso futuro.
Contributo di Gennaro Grieco.